In occasione della Giornata in memoria delle vittime del Covid, che si celebra ogni anno il 18 marzo (la data in cui camion militari prelevarono le bare dei deceduti per Covid-19 dal cimitero di Bergamo, che ormai rischiava il collasso, per trasportarle verso i forni crematori delle regioni circostanti ed il giorno in cui si registrò il maggior numero di morti su scala nazionale), pubblichiamo un pezzo a firma di Giacomo Canobbio, professore ordinario di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale (Milano), sul problema del male trattato in molteplici sue implicazioni teologiche. Buona lettura!
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M. Buonarroti, Giudizio Universale, particolare |
Perché Dio permette il male?
di Giacomo Canobbio
professore ordinario di Teologia sistematica presso la
Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale (Milano)
Inevitabile che in una situazione generale di minaccia sorga nei credenti l’interrogativo sulla presenza di Dio. Al fondo di esso sta la convinzione che Dio non dovrebbe esporre le sue creature alla possibile distruzione. Si tratta di una convinzione condivisa da tutte le religioni che pensano la divinità come realtà benevola, quella di cui gli esseri umani hanno bisogno. L’interrogativo attraversa i secoli, ma ha assunto colorazioni accentuate durante la Shoah. Ha spopolato su molti testi, anche di teologia, la drammatica scena descritta da Elie Wiesel ne La notte: la domanda «Dov’è il buon Dio? Dov’è?», che l’autore sente risuonare dietro a sé mentre impiccano un ragazzo, ritenuto responsabile di un attentato insieme ad altri due, trova nella mente di Wiesel la risposta: «È appeso lì, a quella forca». La risposta è stata letta, sulla scorta della riflessione rabbinica sulla Shekhinah, come indicazione di una solidarietà profonda di Dio con l’ingiusta sofferenza. In verità, appare maggiormente plausibile leggerla come dichiarazione che ormai Dio è morto: un Dio che permette un così tragico oltraggio all’«angelo dagli occhi tristi» non merita di essere riconosciuto, deve essere cancellato dalla mente e dal cuore delle persone umane. La domanda serpeggia in questi ultimi tempi di fronte a una pandemia che sembra inarrestabile. La risposta frettolosa di alcuni cattolici, anche rivestiti di autorità, che vede nella diffusione del virus un castigo, non appartiene alla fede cristiana.
Ma se non possiamo accettare questa risposta, si deve comunque tentare di capire perché Dio non sia intervenuto e non intervenga a bloccare una minaccia che ha provocato e sta provocando sofferenze finora impensate a milioni di persone. La tradizione teologica cristiana ha formulato l’espressione «Dio permette il male». Il verbo “permette” denota il desiderio di non considerare Dio estraneo a ciò che sta accadendo e, nello stesso tempo, di non attribuire a Lui l’origine del male. Questo secondo aspetto si rivela rispettoso dell’identità di Dio, contro ogni tentazione manichea e in sintonia con il messaggio biblico, che ci presenta Dio come fonte della vita, il Padre che si prende cura dei suoi figli. Il primo aspetto, l’idea cioè che Dio non debba essere estraneo alle vicende umane, suggerisce invece che Dio non interviene positivamente, ma lascia che il male dilaghi. Proprio qui sorge però la domanda: «Perché?».
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M. Buonarroti, Giudizio Universale, particolare |
La domanda urge: non si può ritenere che rinunci a intervenire perché impotente. Infatti, qualora si dovesse giungere a questa conclusione – come a volte si pensa, fondandosi sulla debolezza di Dio manifestata nella croce di Cristo – ci si dovrebbe domandare se l’umanità abbia ancora qualche speranza di vincere il male: un Dio debole, avrebbe bisogno Lui stesso di essere salvato, come alcuni rabbini – e con loro anche Etty Hillesun, che ritiene Dio abbia bisogno di essere aiutato – sono giunti a pensare. Paradosso. In questo caso non ci dovremmo neppure aspettare che Dio impedisca il male, e quindi anche la nostra domanda apparirebbe priva di senso. Ma se è potente, perché non interviene? Nella tradizione teologica, fondandosi su alcuni testi biblici (per es. Dt 8,3-5; Eb 12,7,11), si è ritenuto di trovare la ragione nella pedagogia di Dio: non intervenendo a impedire il male, Dio metterebbe alla prova per verificare se si sia in grado di riconoscere solo Lui come Signore. La prova – che assume anche il volto della tentazione – avrebbe lo scopo sia di verifica sia di crescita. Questa risposta non appare tuttavia cogente, anche solo per il fatto che dalla prova si potrebbe uscire perdenti, anziché vincitori. Non a caso nel Padre nostro si chiede di non essere esposti alla tentazione, perché (al di là delle polemiche suscitate dalla nuova traduzione italiana della preghiera insegnata da Gesù) nella tentazione si potrebbe cadere (istruttiva al riguardo la traduzione spagnola: No nos dejes caer en la tentación – non lasciare che nella tentazione cadiamo). Pensare che Dio si ritragga dall’intervenire quando i suoi figli sono minacciati dal male per provarli e farli maturare porta a domandarsi ulteriormente: «Ma ha calcolato bene i possibili esiti?». Non pare pertanto soddisfacente la risposta. Come non appare soddisfacente quella avanzata da Dietrich Bonhoeffer nella lettera del 16 luglio 1944 all’amico Eberhard Bethge: Dio si ritrarrebbe, come la croce di Cristo starebbe a mostrare, per lasciare la responsabilità agli esseri umani. Da Lui quindi non ci si dovrebbe attendere azioni risolutrici delle sventure umane, poiché egli non è un Deus ex machina, che interviene nelle situazioni di impotenza degli esseri umani. Insoddisfacente questa visione perché porta a domandarsi a che cosa serva, alla fine, Dio. Il passo verso l’ateismo è breve, e anche la nostra domanda risulta priva di senso: se Dio lascia che le vicende del mondo si svolgano senza che Lui intervenga, vuol dire che nulla – sia il bene sia il male che gli esseri umani esperimentano – ha relazione con Lui, e quindi anche chiedersi perché Egli permetta il male non trova alcun aggancio nella sua identità. Si dovrà rinunciare a trovare una risposta? Forse è la posizione più saggia, benché possa apparire deludente. D’altra parte, la pretesa di trovare una ragione plausibile non rischia di rinchiudere Dio entro parametri che non rispettano la sua imperscrutabile identità? Rileggere il percorso di Giobbe potrebbe essere istruttivo, perché libera dalla presunzione di chiedere ragione a Dio del suo comportamento. Ma riferirsi a Giobbe fa stare sulla soglia del mistero. Questo si rivela ancora più grande quando si rilegge la vicenda di Gesù: in essa si svela, in maniera imprevista, che Dio si immerge nella vicende dolorose degli umani per aprirli alla speranza di una vittoria sul male. E da tale speranza sgorgano energie per anticipare la vittoria definitiva. Non sappiamo perché Dio permetta il male. Sappiamo però che, grazie a Lui, questo non è l’ultima parola sull’esistenza umana.
Fonte: La fede e il contagio. Nel tempo della pandemia (ed. Ave)
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M. Buonarroti, Giudizio Universale, particolare |