Giuseppe e la poetica della semplicità, quella "Lettera" di don Tonino Bello
In occasione della Solennità di S. Giuseppe, sposo della Vergine Maria e padre putativo di Gesù, nell'Anno speciale a lui dedicato in occasione del 150mo anniversario della Proclamazione a Patrono della Chiesa Cattolica, pubblichiamo la splendida Lettera scritta nel 1990 da Mons. Tonino Bello, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi. Una pagina di poesia tra le più belle e le più tenere scritte su questa figura tanto popolare quanto sconosciuta. A commento, le più belle opere su S. Giuseppe nella corrente artistica del "Lume di Candela" di Gerrit Van HontHorst e Georges de la Tour. Buona lettura!
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Gerrit Van HontHorst, San Giuseppe e l'Infanzia di Cristo (1626), Ermitage San Pietroburgo |
Lettera a San Giuseppe
Caro San Giuseppe,
scusami se approfitto della
tua ospitalità e mi fermo per una mezz’oretta nella tua bottega di falegname
per scambiare quattro chiacchiere con te.
Non voglio farti perdere
tempo. Vedo che ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu
continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo
ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze.
Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto che sei l’uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensieri, profondi come le notti d’Oriente, all’eloquenza dei gesti più che a quella delle parole. Vedi, un tempo anche da noi le botteghe degli artigiani erano il ritrovo feriale degli umili, vi si parlava di tutto, di affari, di donne, di amori, delle stagioni, della vita, della morte. Le cronache di paese trovavano lì la loro versione ufficiale, e i redattori dell’innocuo pettegolezzo quotidiano affidavano alle rapidissime rotative degli avventori la diffusione delle ultime notizie.
Il tempo passava così lento, che gli intervalli scanditi ogni quarto d’ora dalla torre campanaria sembravano un’eternità, ma forse era proprio questa lusinga di eternità a rendere preziosa un’opera di artigianato e a darle vita era proprio quella angosciante porzione di tempo che vi veniva rinchiusa. Sembrava che la materia prima di una seggiola o di un vomere non fosse tanto il legno od il ferro, ma il tempo; e che la fatica del fabbro o del carpentiere, del sarto o del calzolaio fosse quello di addomesticare i giorni comprimendoli nella materia e crearsi per un istinto di conservazione riserve di tempo negli otri delle cose prodotti dalle sue mani. Il tempo allora era imprigionato nella materia come l’anima nel corpo, ruggiva dentro un oggetto e gli dava movenze di vita se non proprio l’accento della parola. Le cose nascevano perciò lentamente e con i tratti di una fisionomia irripetibile. Come un figlio, prima un atto d’amore, dolcissimo e breve, poi nove mesi.
Oggi purtroppo qui da noi di botteghe artigiane ne sono rimaste veramente poche. Al loro posto sono subentrate le grandi aziende di consumo: non si genera più, o meglio si concepisce solo l’archetipo, ma senza passione e con molto calcolo. L’archetipo poi, questo sordido ermafrodita, riproduce con ritmi di allucinante rapidità, squallidi sosia, con l’unico desiderio che campino poco. Ed eccoli lì, allineati, questi elegantissimi mostriciattoli dalla vita breve, belli, ma senz’anima, perfetti, ma senza identità, lucidi, ma indistinti. Non parlano perché non sono frutto di amore, non vibrano, perché nelle loro vene non ci sono più i fremiti del tempo prigioniero.
Si, Giuseppe! È proprio questa
anemia di tempo che rende gelide le nostre opere.
Ecco, attraverso l’uscio
socchiuso, scorgo di là Maria intenta a ricamare un panno bellissimo, senza
cuciture, tutto tessuto d’un pezzo da cima a fondo. Probabilmente è la tunica
di Gesù, ma non per quando nascerà, per quando sarà grande: gliela prepara fin
d’ora, prima già che lui nasca.
Io non me ne intendo, e perciò
non so se gli arabeschi che disegna con l’ago siano fatti a punto erba o a
punto ombra.
Forse sono fatti a punto a
croce.
Una cosa, però, intuisco: che
quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui, l’eterno, si sentirà le spalle
amorosamente protette dal fragile tempo di sua Madre.
Povera Maria. A suo figlio, vorrebbe dargliela tutta intera la sua vita. Ma non può. Allora gliene regala una porzione, fin da adesso, racchiusa nello scrigno di quella tunica.
Forse un giorno, proprio per
questo, sulla vetta del Golgota, gli uomini della Croce non vorranno lacerarla.
Oggi da noi, anche i ricami
vengono fatti in serie.
C’è una ditta, la quale ha
inventato una macchina che fa i punti perfetti, e non soltanto quelli!
E se tu dopo aver comprato in
un negozio della città di san Francesco, un guanciale disegnato o a “punto
assisi”, la notte
pensi di poggiare il capo su
un frammento di tempo regalatoti da un’anonima ricamatrice, bella come Santa
Chiara, ti illudi amaramente.
Questo è forse il sacrilegio
più grave della nostra civiltà. La distruzione del tempo, e col tempo
dell’amore, della fantasia, della bellezza, dell’arte.
Abbiamo creduto che per fare
un tavolo sia sufficiente il legno!
Oh Dio! Riusciamo pure ad
ammettere che per fare il legno ci vuole l’albero, e che per fare l’albero ci
vuole il seme. E perfino che per fare il seme ci vuole il fiore. Ma non abbiamo
più il coraggio di concludere che per fare un tavolo ci vuole un fiore! E lo
lasciamo dire solo ai poeti!
Ma se oggi qui da noi di
botteghe artigiane è rimasto solo qualche nostalgico scampolo, non è tanto
perché non si genera più, quanto perché ormai non si ripara più nulla.
Vedi Giuseppe in questi pochi
minuti da che sto parlando con te sono già entrati nella tua bottega un bambino
in lacrime con la ruzzola a cui rifare l’asse, una vecchietta con la scranna da
impagliare di nuovo, un contadino con un mastello a cui si è infracidito una
doga, un carrettiere col mozzo di una ruota che si è sgranato dai raggi.
Da noi non si usa più!
Quando un oggetto si è anche
leggermente incrinato nella sua funzionalità, lo si mette da parte senza
appello. Del resto se nelle sue viscere non racchiude un’anima d’amore, per
quale scopo accanirsi a ridare la vita ad un corpo già nato cadavere.
La nostra la chiamiamo perciò
la civiltà dell’usa e getta!
Al televisore che sta in
cucina si è fulminato un relè, niente paura! Viene messo da parte e sostituito
con un altro che ha il video registratore incorporato.
Alla bambola che sembra sia
stata sorpresa da un colpo apoplettico perché si sono scaricate le pile, poco
importa! Portala al bidone della spazzatura! Ne acquisteremo una di quelle che
sono vendute con tanto di certificato di nascita, si sposano, fanno all’amore e
vanno nei campeggi estivi.
Al fucile giocattolo regalato al bambino il giorno di natale è caduto il grilletto? Presto fatto! Per la Befana sarà pronto un mitra col nastro delle pallottole attorno al carrello, o addirittura un sottomarino lanciamissili con la verifica computerizzata degli obiettivi colpiti.
Alla giacca di fustagno è
caduto un bottone? Al soprabito di velluto si è scucita la fodera? Al reggiseno
di pizzo si è allentato l’elastico? A un paio di sandali si è staccata la
fibbia? Non vale la spesa ripararli! Porta via al macero, senza scrupoli. Anzi
no! Un momento! Tra giorni passeranno quelli della Caritas parrocchiale. Così
ci liberiamo il guardaroba da ingombri fastidiosi, e poi, diamine! Aiutiamo la
gente! Facendo contento il Signore il quale ha detto che i poveri li abbiamo sempre
con noi.
Un angolo di paradiso, un giorno, non ce lo negherà certamente, visto che ce lo stiamo accaparrando, sia pure con i riciclaggi delle nostre cose superflue.
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Georges de La Tour, Il Sogno di Giuseppe, Musée des Beaux Arts - Nante |
Ma che c’è Giuseppe! Vedo che ti sei fermato col martello, brandito a mezz’aria, e i tuoi occhi dolenti mi trafiggono con uno sguardo di disgusto.
Ho capito!
Quel tuo sguardo vuol dire:
“mi fate pietà”!
Altro che usa e getta,
valicando davvero ogni limite, avete invertito la fase in “getta e usa”, visto
che siete così abbietti da snaturare perfino l’intima essenza della carità,
piegandola alla vostra libidine di possesso.
Si, hai ragione falegname di
Nazaret. Siamo proprio giunti a tale grado di perfidia, che pretendiamo di
elevare a livelli di purezza i liquami delle nostre cupidigie.
Traffichiamo persino le scorie
del nostro egoismo, verniciamo di solidarietà gli scarti del nostro tornaconto,
e con una oscena mascherata di gratuità ci illudiamo di riscattarci dal nostro
interminabile inverno dell’amore.
E guarda che non ti ho detto
tutto! Perché ho ancora paura di quel martello che è rimasto brandito a
mezz’aria. Se infatti dovessi raccontarti di quelle operazioni filantropiche
tenute a battesimo dalla televisione, son sicuro che metterei a dura prova la
tua tenuta di “uomo non-violento”.
Che vuoi farci! Questi si,
sono i misteri buffi, di cui dovremmo vergognarci e contro cui dovremmo
ribellarci e nel cui oceano stiamo tutti facendo naufragio.
Ma se oggi qui da noi, in
questo crepuscolo tormentato del secolo ventesimo, le botteghe artigiane sono
pressoché sparite non è solo perché non si genera più e neppure perché non si
ripara più nulla. È perché non c’è più tempo per la carezza. Mi spiego!
Vedi Giuseppe, da quando sono
entrato nella tua bottega, quante carezze non hai fatto su quel legno denudato
dalla pialla!
Tutte le volte che l’hai
strisciato con il ferro, subito vi sei passato sopra con la mano, leggera come
la luce che trema sulle acque: non saprei bene se per proteggerne la
verecondia; o per velargli, un attimo appena, la bianca intimità; o per compensare
con un gesto di tenerezza il trauma della violenza. E anche ora, mentre ti
parlo, passi e ripassi con le dita sugli spigoli smussati dallo scalpello, e ne
levighi le asprezze, col medesimo amore con cui la pecora madre asciuga con la lingua
l’agnello appena nato.
Poi cicatrizzi le ferite del
legno, provocate dal trapano e dai chiodi, con gli stucchi, canforati come
unguenti d’Arabia. Vi stendi sopra il balsamo delle vernici, che impregnano
l’aria d’un acre profumo, e continui a blandire con la colla gli assi di faggio
che ora luccicano come uno specchio. Quante carezze: con le palme della mano,
con i pennelli, con le spatole, con gli occhi. Sì, anche con gli occhi, perché,
ora che hai finito una culla, sei tu che non ti stanchi di cullarla con lo
sguardo.
Oggi purtroppo da noi, non si
carezza più, si consuma solo, anzi si concupisce. Le mani incapaci di dono,
sono divenute artigli, le braccia troppo lunghe per amplessi oblativi, si sono
ridotte a rostri che uncinano, senza pietà, gli occhi prosciugati di lacrime ed
inabili alla contemplazione, si sono fatti rapaci, lo sguardo trasuda libidine
di possesso, e il dogma dell’usa e getta è divenuto il cardine di un cinico
sistema binario che regola le aritmetiche del tornaconto e gestisce l’ufficio
ragioneria dei nostri comportamenti quotidiani. Perciò si violenta tutto! E non
soltanto le cose, il cui spessore di sostanza si è così rinsecchito da lasciare
vibrare soltanto l’immagine esteriore.
Ma anche le persone! Il corpo,
degradato a merce di scambio, è divenuto spazio pubblicitario e manichino per
prodotti di consumo! L’eros mercantile corrode alla radice i rapporti
interumani, sgretola la comunione, frantuma l’intimità, irride la famiglia,
commercializza la donna. E con i postulati di marketing degli spot televisivi,
spersonalizza irrimediabilmente la sessualità, riducendola ad una variabile
della cupidigia di potere.
Non c’è da meravigliarsi perciò
che tra le allucinanti simbologie di questa civiltà dei consumi Rambo
costituisca la testa di serie nelle graduatorie più gettonate della violenza. E
tanto meno c’è da scandalizzarci, se stanno così le cose che il Presidente
Regan abbia detto, sia pure scherzando, che dopo aver visto Rambo, sa che cosa
fare la prossima volta che dei cittadini americani verranno presi in ostaggio.
Vedo, però che si fa tardi. Il
sole, calando sulla pianura di Esdrelon, illumina di porpora gli ultimi
contrafforti dei monti di Galilea. E io ancora non ti ho detto la ragione
fondamentale per la quale sono venuto qui da te.
No, non è per affliggerti con
le lamentazioni mistiche sulla cattiveria dei tempi, e neppure per evitare gli
incroci pericolosi della mia civiltà, che ho trovato rifugio sentimentale
nell’oasi della tua bottega, dove, tra tenaglie, lime e seghetti, attaccati in
bella mostra alle pareti, sono rimasti attaccati anche i ricordi del tempo che
fu; anzi, se ti ho dato quest’impressione di fuga all’indietro non giudicarmi
un introverso pure tu, vittima magari di un raptus da regressione; bastano già
gli psicanalisti che abbiamo da noi, di fronte ai quali devi difenderti dai
tuoi stessi sentimenti, se non vuoi finire nella morsa della loro logica,
impietosa, almeno quanto la morsa che sta sul tuo bancone di falegname!
Mio caro San Giuseppe, io sono
venuto qui, soprattutto per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre
di Gesù, e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la vita.
E ti dico subito che la
formula di condivisione espressa da te, come marito di una vergine, la trama di
gratuità realizzata come padre del Cristo, e lo stile di servizio messo in atto
come responsabile della tua casa, mi hanno da sempre così incuriosito, che ora
non solo vorrei saperne qualcosa di più, ma mi piacerebbe capire in che misura
questi paradigmi comportamentali siano trasferibili nella nostra società
dell’usa e getta.
Dimmi, Giuseppe, quand’è che
hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla
fontana del villaggio con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello
come lo stelo di un fiordaliso?
O forse un giorno di sabato,
mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte, sotto l’arco della
sinagoga?
O forse un meriggio d’estate,
in un campo di grano, mentre abbassando gli occhi splendidi, per non rivelare
il pudore della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di spigolatrice?
Quando ti ha ricambiato il
sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua
prima benedizione e tu non lo sapevi?
E la notte tu hai intriso il
cuscino con lacrime di felicità.
Ti scriveva lettere d’amore?
Forse si! E il sorriso con cui accompagni il cenno degli occhi verso l’armadio
delle tinte e delle vernici mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti,
che ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna!
Poi una notte hai preso il
coraggio a due mani e sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e
di menta e le hai cantato sommessamente le strofe del Cantico dei Cantici:
“Alzati amica mia, mia bella e vieni, perché ecco, l’inverno è passato, è cessata
la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è
tornato, e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il
fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati amica mia, mia bella e
vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli
dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tuia voce, perché la tua
voce è soave e il tuo viso è leggiadro.
E la tua amica, la tua bella
si è alzata davvero, è venuta sulla strada, facendoti trasalire, ti ha preso la
mano nella sua e mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì,
sotto le stelle, un grande segreto.
Solo tu, il sognatore, potevi
capirla. Ti ha parlato di Jahvè. Di un angelo del Signore. Di un mistero
nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande
dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava.
Poi ti ha chiesto di uscire
dalla sua vita, di dirle addio e di dimenticarla per sempre.
Fu allora che la stringesti
per la prima volta al cuore e le dicesti tremando: “Per me, rinuncio volentieri
ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia stare con
te”. Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la
tua prima benedizione sulla Chiesa nascente.
Spero che dietro quegli assi
di castagno appoggiati alla parete non ci sia nascosto qualche rabbino, esperto
di teologia, se no troverà anche lui un buon capo d’accusa per deferirmi
davanti all’“arcisinagogo”!
Ma io penso che hai avuto più
coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a
condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull’onnipotenza del
Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto
più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto in te e in
lei. Ma ora Giuseppe, cambiamo discorso!
Si direbbe che il pane, più
che per nutrire, è nato per essere condiviso: con gli amici, con i poveri, con
i pellegrini, con gli ospiti di passaggio! Spezzato sulla tavola, cementa la
comunione dei commensali; deposto nel fondo di una bisaccia riconcilia il
viandante con la vita; offerto in elemosina al mendico, gli regala
un’esperienza, sia pure fugace di fraternità; donato a chi bussa di notte nel
bisogno, oltre a quella dello stomaco, placa anche la fame dello spirito, che è
fame di solidarietà; raccolto nelle sporte, dopo un pasto miracolo sull’erba
verde, sta ad indicare che a chi sa fare la divisione, gli riesce bene anche la
moltiplicazione!
E’ proprio vero, Giuseppe. Il
pane è il sacramento più giusto del tuo vincolo con Maria. Lei morde ogni
giorno quello di frumento, procuratole da te col sudore della fronte. Tu mordi
il pane del tuo destino che l’ha resa Madre del Figlio di Dio.
E’ per questo che per noi, o
falegname di Nazareth, tu sei provocatore di condivisioni generose e assurde,
appassionate e temerarie, al centro della sapienza e al limite della follia.
Insegnaci, allora, a
condividere il pane con i fratelli poveri, in questo nostro mondo, dove
purtroppo muoiono ancora più di cinquanta milioni di persone per fame.
Il pane da segno di comunione,
si è trasformato in simbolo della scomunica, ed è divenuto il discrimine sul
cui filo passa la logica della guerra: viene accaparrato dagli ingordi, non
condiviso dai poveri, ammuffisce nelle credenze degli avidi, non allieta la
madia degli umili, si accumula negli artigli di pochi, non si distribuisce
sulle bocche di tutti! Sovrabbonda nei bidoni della spazzatura d’Europa, ma è
sparito sulle mense desolate dell’Eritrea. Trabocca senza pudore negli opulenti
cenoni del Nord, ma è sogno proibito per tutti i Sud della Terra!
Viene diviso anche; sì, viene
diviso, come gesto munifico di regalità, ma non viene restituito a chi ne ha
diritto, con i canti gregoriani della penitenza e in nome della giustizia!
Hai sentito mai dire,
Giuseppe, che se i ghiacciai eterni dell’Ermon, si sciogliessero d’incanto, le
acque sprofonderebbero a valle con pro rose tracimazioni, il lago di Tiberiade
diventerebbe un mare, il giordano strariperebbe, rompendo gli argini, e
l’arsura dell’intera Palestina, verrebbe per sempre placata!
E allora! Visto che presso
l’Altissimo, ce ne sono poco di santi così referenziati come te, perché non
provochi un fenomeno simile, scongelando le ricchezze dalle mani di pochi e
travolgendo la terra in un cataclisma di pane. E se questo ti sembra un
miracolo troppo grosso per i tuoi mezzi, perché almeno non persuadi la Chiesa
del Duemila a farsi carico con più fiducia della sorte degli ultimi, non solo
spartendo le sue ricchezze con i poveri, ma soprattutto condividendo la miseria
degli esclusi.
Oggi più che mai vogliamo
sperimentarti così, quale Protector Sancte Ecclesiae, Protettore della
chiesa dei derelitti, degli emarginati, dei violentati, dei palestinesi, dei
marocchini, dei terzomondiari, degli sfrattati, degli sfruttati, dei
prigionieri, e degli inquilini di tutte le più squallide periferie
dell’umanità.
Capisco che se non mi rispondi
non è solo perché tu sei l’uomo del silenzio, ma anche perché la fornaia si è
attardata nella tua bottega. Ha visto la culla e non ha smesso di contemplarla
per un istante. Poi si è curvata, ha steso il mantello per terra e l’ha riempito
di trucioli e di segatura, di ritagli e di assicelle. Ogni sera, così, lei fa
il carico per accendere il forno e a te rimane il pavimento pulito e un pane di
granturco per la cena.
Ma, a proposito, ora che siamo
rimasti soli, vuoi spiegarmi, Giuseppe, come hai accolto il mistero di quella
culla? E perché mai tu, l’uomo dei sogni, torni ogni tanto verso quel piccolo
nido di legno, e trattieni il respiro, e tendi l’orecchio illudendoti di
ascoltare un vagito?
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Georges de La Tour, S. Giuseppe falegname, 1642 c.ca, Museo del Louvre (Parigi) |
Vedo che la notizia non ti
turba granché. Hai così tanto imparato dalla gratuità purissima di Dio, da non
provare il minimo sgomento al pensiero che la tua fatica non sarà compensata
neppure dalla soddisfazione di sentirti utile a qualcosa.
Culla o greppia, non
t’importa. Non pretendi neppure contropartite affettive e continui ad attendere
come dono, come semplice dono, da nulla provocato, se non dalla sua stessa
liberalità, il tuo imprevedibile Dio: O cieli piovete dall’alto, o nubi
mandateci il Santo, o terra, apriti o terra e germina il Salvatore.
Un dono così radicale che, pur
custodendo la verginità di Maria, ti fa una sola carne con lei infinitamente
più di quanto non siano tutt’uno due sposi nel momento supremo dell’amore.
Un dono così gioioso, che la
tua contabilità non è segnata sui registri a partita doppia, contempla solo la
voce in uscita.
Tu non chiedi nulla per te. Neppure
da Dio! Ma non per orgoglio, per sovraccarico d’amore, dai tutto senza calcolo,
e non accantoni oggi frammenti oscuri di tempo, allo scopo di ritirare domani
interessi di gloria per tutta l’eternità.
Ssssttt....!!!
Silenzio Giuseppe, un carro si
è fermato alla tua porta. Entra un uomo, molto stanco, e poggia sul bancone un
piccolo otre di vino, e dice: “Ho attraversato tutta la Giudea e la Samaria, e
debbo raggiungere, prima che sia notte la terra di Zabulon. Ti ho portato un
po’ di vino, dalle vigne di Engaddi, laggiù presso il Mar Morto. E’ di quello
buono. Bevilo Giuseppe, alla mia salute con la tua sposa. So che aspettate un
figlio”.
Beh, stasera il Signore vuole
mostrarsi particolarmente generoso anche con me, perché mi ha messo sotto gli
occhi un altro simbolo, quello della gratuità e della festa.
Dopo il pane della fornaia,
ecco il vino del carrettiere, il vino che rallegra il cuore dell’uomo.
Mah, vedo Giuseppe che ti
accingi a chiudere, perché hai preso un orciolo di terracotta e stai uscendo per
riempirlo d’acqua alla fonte vicina. Io allora approfitto della tua assenza per
leggere in negativo quel simbolo della letizia, appoggiato sul bancone, e
chiedermi se per caso questa mia irruzione di stasera nella tua bottega di
Nazaret, non sia stata un’evasione puramente letteraria, in un mondo, che con
quello in cui mi tocca vivere, non ha nulla da spartire.
Ci vuole infatti un bel
coraggio a dire che il vino è segno di gratuità e di festa, quando per noi è
divenuto l’emblema drammatico dell’evasione e della fuga, che accomuna i
tossici agli alcolisti, gli ultras ai barboni! Ma perché mai il vino si è pervertito
in idolo fascinoso per chi getta le armi e rinuncia ad un’esistenza troppo
faticosa da vivere?
Il motivo c’è: abbiamo smarrito l’ebbrezza della gratuità e c’è rimasta solo l’ebbrezza dell’alcol! Sicché in un mondo regolato dai petroldollari, angosciato dai crolli di Wall Street, retto dalle bilance dei pagamenti, che irta con la speculazione, che si infischia dei debiti dei popoli in via di sviluppo, che si lascia sedurre dalla massimizzazione del profitto, che monetizza persino il rischio delle popolazioni, i cui terreni sono espropriati per farne basi militari, che sfrutta i poveri col traffico delle armi, che è sordo alle esigenze di un nuovo ordine economico internazionale.
In un mondo del genere, come
può esplodere la gioia?
Ci si lascia vivere! Si amoreggia
con il fatalismo! Ci si appiattisce in un’esistenza che scorre senza più
stupore, senza spessore, come le immagini sul video. E noi compiamo le nostre
scelte come se spingessimo i tasti di un telecomando.
Crediamo di scegliere e invece
siamo scelti!
Si muore per anemia cronica di
gioia, si moltiplicano le feste, ma manca la Festa!
E le letizie diventano
sbornie! Gli incontri frastuoni e i rapporti umani, orge da lupa mari!
Meno male Giuseppe che hai
fatto presto a tornare dalla fonte. Vedi in tua assenza sono stato colto da un
pauroso deficit di speranza e ho temuto addirittura di dover uscire dalla tua
bottega per la tangente del pessimismo!
Ma ora che sei rientrato anche
il vino di Engaddi, lassù sul bancone, torna a rosseggia di letizia pasquale e
risplende come simbolo della festa. Bevilo con Maria alla salute del
carrettiere che te l’ha regalato; ma anche alla buona fortuna di tuo figlio che
sta per nascere. Un giorno egli farà scorrere il vino sulle mense dei poveri, e
sceglierà il succo della vite come sacramento del sabato eterno.
Anzi, se non ti dispiace, mettimene un poco, in quel boccale di creta, me lo voglio portare come ricordo di quest’incontro, e anche di quell’acqua che sgocciola ancora sul pavimento, dammene un poco!
Non è acqua inquinata quella!
Le piogge acide, le discariche industriali e gli additivi chimici l’hanno
ancora preservata, lasciandola come simbolo di purezza e di armonia ecologica.
Dammi della tua acqua, la
quale è molto utile, et humile, et pretiosa et casta.
Ma dammela soprattutto perché,
da quando tuo figlio la userà per lavare i piedi ai suoi amici, in una sera di
tradimenti, del mese di Nisan, diverrà il simbolo di un servizio d’amore che è
la spiegazione segreta della condivisione, della gratuità e della festa.
E visto che ci siamo, dammi
anche di quel pane!
No, non tutto! Spezzamelo
Giuseppe! Condividilo con me! Un giorno anche tuo figlio lo spezzerà prima di
morire, e la speranza traboccherà sulla terra.
L’acqua, il vino, il pane: la
trilogia di un’esistenza ridotta all’essenziale! Li porterò con me, nella bisaccia
del pellegrino. Mi serviranno tanto, sulla mia strada di viandante un po’
stanco. E serviranno tanto anche alla mia Chiesa, anzi quando mi chiederà
qualcosa, spero di non aver null’altro da darle che questo: né denaro, né
prestigio, né potere, ma solo acqua, vino e pane!
Si è fatto tardi, Giuseppe. Si
è fatto tardi, Giuseppe.
Nella piazza non c’è più
nessuno. I grilli cantano sul cedro del tuo giardino. sul cedro del tuo
giardino.
Nelle case, le famiglie
recitano lo “Shemà Israel”. Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”.
E tra poco Nazareth si addormenterà
sotto la luna. ra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna. Di là, vicino al
fuoco, là, vicino al fuoco, la cena è pronta. Cena di povera gente. L’acqua
della fonte, il pane di giornata, e il vino di Engaddi.
E poi c’è Maria che ti
aspetta. E poi c’è Maria che ti aspetta.
Ti prego: quando entri da lei,
sfiorala con un bacio. Falle una carezza pure per me. o. Falle una carezza pure
per me.
E dille che anch’io le voglio
bene. Da morire! E dille che anch’io le voglio bene. Da morire!
Buona notte, Giuseppe! Buona
notte, Giuseppe!