Ottant'anni dalla composizione della 'Messa Pastorale' di Maiori
Ottant'anni dalla composizione
della 'Messa Pastorale' di Maiori
Tra meno di una settimana la comunità di Maiori celebrerà con sobria solennità la Festa del Patrocinio di S. Maria a Mare. Delle diverse celebrazioni che costituiscono l’assetto cerimoniale della ricorrenza, quella che sicuramente ha assunto nel corso degli anni un’importanza particolare – per carica emotiva e molteplicità di suggestioni in essa coagulate – è la prima Messa del giorno festivo, fissata in Nocte sin dall’istituzione dei festeggiamenti. Chi ha avuto modo di prendervi parte, negli anni, sa bene quanto essa costituisca una sorta di chiamata a raccolta della comunità che, nelle sue multiformi espressioni, sente in qualche modo di essere convocata in Collegiata, luogo simbolo della sintesi delle molte diversità che negli ultimi due secoli hanno attraversato la Città. Nel tempo, particolari espressioni della pietà popolare hanno fatto coincidere questo momento con l’inizio della preparazione spirituale al Natale del Signore: la più antica e meglio canonizzata di esse è, certamente, l’esecuzione della cosiddetta Messa Pastorale, della cui composizione ricorrono, quest’anno, i primi ottant’anni.
Al lettore meno accorto occorrerà chiarire che con il termine «messa» si intenda, in questo caso, l’«ordinarium missae», ossia l’insieme di parti celebrative – Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus-Benedictus e Agnus Dei – il cui testo, a differenza del «proprium missae» – costituito dalle antifone di Introito, Offertorio e Comunione con il Graduale/Tratto e la Sequenza – rimane invariato in tutti i tempi dell'anno liturgico. Sin dal Medioevo la fissità del testo, che doveva rimandare all’immutabilità del Dio celebrato, è stata modulata dalle diverse espressioni musicali con cui questi testi venivano rivestiti nelle diverse circostanze, e che in qualche modo rimandavano mistagogicamente alla mutabilità del tempo in cui Cristo si era incarnato e in cui la Chiesa, suo corpo mistico, celebrava. Il momento di massimo splendore di quello che, nel tempo, si codificò come un vero e proprio genere musicale fu certamente il Rinascimento, che vide le intelligenze compositive di molti autori, provenienti da ambiti e contesti diversi, cimentarsi nel modulare questi testi su musiche via via sempre più complesse e varie, per organici e stilemi. Il sottogenere della «messa pastorale» - che, tra le molte cose, non è stato ancora oggetto di studi approfonditi - fu uno dei naturali approdi dell’estetica liturgica barocca, che, su spinta dei nuovi ordini religiosi, aveva caldeggiato una sempre maggiore rappresentazione pathica delle realtà celebrate, tanto nelle arti figurative quanto in quella musicale. Esso, in particolare, si sviluppò nel peculiare contesto napoletano che ebbe il merito di sintetizzare, in maniera mirabile, le antiche suggestioni della vita rurale e bucolica ereditate dalla grecità alle crescenti esigenze dettate da quello spirito spagnoleggiante che, per tutto l’arco dell’età moderna, avrebbe visceralmente caratterizzato le espressioni religiose del Meridione d’Italia. Alle messe pastorali di Durante e Paisiello – solo per citarne qualcuna – avrebbero, poi, fatto eco quelle di tanti compositori, Mozart fra tutti, cimentatisi in operazioni simili: la semplicità, la naturalezza e il senso di pace che derivava dall’ascolto di queste composizioni – nelle quali risuonava particolarmente quello spirito agreste – risultava particolarmente funzionale alla contestualizzazione dei momenti celebrativi legati alla Nascita del Signore. Proprio a Napoli, nel 1919, fra Serafino Marinosci, minorita di origini pugliesi, fu ispirato nella composizione della sua ultima messa – la pastorale, per l’appunto – conclusa proprio qualche giorno prima della morte. Gli ordini religiosi operanti nel sud Italia giocarono, infatti, un ruolo di primo piano nello sviluppo di questo genere, dal momento che la musica era annoverata tra i veicoli più funzionali allo sviluppo e all’incremento delle pie devozioni.
È proprio al gusto e alla sensibilità compositiva di un altro frate minore, infatti, che si ascrive la Messa che da ottant’anni accompagna la prima eucarestia della festa del Patrocinio: padre Giovanni Morrone ofm. Nato a Gragnano il 22 giugno 1877 e battezzato con il nome secolare di Vincenzo, indossò l’abito francescano il 19 luglio 1892 e fu ordinato sacerdote il 23 dicembre 1899. Nel settembre del 1942 assunse il ruolo di vicario nel convento di Maiori, dal quale si allontanò nel novembre dello stesso anno per prestare il servizio di organista presso il cenobio francesco di Cava de'Tirreni. Fece ritorno nella città costiera nell’ottobre dell’anno successivo e prestò servizio musicale presso l’Insigne Collegiata fino alla sua morte, sopraggiunta il 6 febbraio del 1944, per via di una grave malattia renale. Il suo corpo riposa nel Cimitero di Maiori.
Testimonianze dirette ci confermano che, a differenza del passato, il servizio musicale presso il massimo tempio cittadino non era assicurato da un’organista titolare; così come quello vocale, se solo si considera che la precedente nomina di Antonio Tirabassi a maestro di cappella – che, forse, doveva rispondere all’auspicio della Commissione per l’Opera dell’Insigne Collegiata di dotare la chiesa madre di un gruppo di cantori in pianta stabile – non fu seguita dalla costituzione reale di una schola cantorum. Padre Giovanni riunì attorno a sé un gruppo di giovani e li avviò alla musica e al canto corale: tra di essi ricordiamo il sig. Aniello Della Mura, per tutti «Mast'Aniell’ ‘o barbier», che per molti anni tenne in vita il suo ricordo, testimoniando la sua condotta di francescano modello, gioviale e cordiale con tutti, sensibile all’arte e ad ogni forma di bellezza. Sovente si attardava in lunghe passeggiate verso Capo d'Orso, dove si recava per ammirare il tramonto.
All’organo «Zeno Fedeli» della Collegiata, costruito quarant’anni prima, padre Giovanni concepì la composizione di una messa che potesse accompagnare la preghiera dei fedeli nel tempo di preparazione al Natale, coagulando in essa tutti i topoi delle nenie natalizie che già da un secolo allietavano le valli costiere: si pensi, infatti, che la prima presenza di zampognari autoctoni è attestata nella vicina Minori sul finire del Settecento. L’opera è strutturata in cinque brani – il Kyrie e il Gloria in fa maggiore; il Sanctus, il Benedictus e l’Agnus Dei in sol maggiore – per un organico di due voci virili (dopo la riforma seguita al Vaticano II iniziò ad essere eseguita anche a voci miste) con accompagnamento d’organo. Lo stile compositivo è per lo più omoritmico: le due voci, salvo in due eccezioni, presentano la stessa figurazione ritmica. Nella scansione testuale, invece, si riscontra l’alternarsi di stile sillabico e melismatico: la presenza di gruppi di note per una sola sillaba – specie nel Kyrie e nel Sanctus – sono utilizzati, coerentemente con lo spirito del tempo, per creare particolare enfasi su specifici passaggi. I diversi temi proposti costituiscono una sintesi originale delle numerose melodie di estrazione squisitamente popolare, nobilitate dall’estro creativo del frate che seppe elaborarle e cucirle sulle parole dei testi liturgici. La parte dell’organo alterna il semplice accompagnamento delle voci – in corrispondenza delle quali è qualche volta appena accennato – a porzioni solistiche di grande lirismo. Le connotazioni dinamiche sono tutte ben espresse e paiono suggerire una messa alla prova sul campo dell’opera completa.
Giunta ai giorni nostri in forma di manoscritto ciclostilato (l’originale, con tutta probabilità, deve essere andato perduto), essa reca nelle parti del Sanctus-Benedictus e Agnus Dei la firma di fra Michele Sabatino, altro minorita del convento di Maiori, anch’egli al seguito di padre Giovanni tra i giovani cantori della Collegiata. Se quest’ultimo dato lascia presumere un intervento compositivo sull’opera finalizzato, forse, a completarla – sono significative le datazioni apposte a chiusura del Sanctus (P. Michael M. Sabatino O.F.M., Die 24 Mai Anni 1944) e dell’Agnus Dei (Pax et Bonum, Majori 12.-.-13.. P. Michele Sabatino), successive alla morte di Morrone – la testimonianza di Aniello Della Mura conferma che l’opera sarebbe stata interamente composta da fra’ Giovanni e soltanto trascritta in un secondo momento dal discepolo e continuatore – la totale assenza del Credo sembrerebbe confermare questa circostanza. Dai suddetti manoscritti ciclostilati, d’altro canto, è possibile rilevare che, malgrado lo stato precario di leggibilità, il nome del frate gragnanese non sia stato apposto sulla prima pagina con la stessa grafia dell’originario spartito, né delle parti testuali, segno di un’apposizione successiva, forse finalizzata a preservarne la memoria.
Firma, data topica e cronologica riportata sulla partitura del Sanctus |
Al presente, se non è plausibile entrare nel vivo della questione delle attribuzioni, è certamente possibile osservare almeno due circostanze. La Messa pastorale di Morrone costituisce, ad oggi, la sola opera composta esclusivamente per la Chiesa di Maiori, eseguita tutt’oggi nel medesimo contesto architettonico e sonoro in cui essa fu concepita (si pensi alla mai variata conformazione organo-cantoria-soffitto a cassettoni), con tutto quello che ciò comporta in termini di pertinenza estetica e di suggestione storica. In secondo luogo, è doveroso considerare come questa composizione sia stato il terreno di confronto di circa quattro generazioni di cantori ed organisti – professionisti e non – che in molti e diversi modi ne hanno curato l’esecuzione, tramandandone lo spirito originario sotteso, plasmandola e impreziosendola sempre più. Dalla Collegiata, poi, essa ha raggiunto le chiese di periferia – soprattutto grazie ad una trascrizione redatta da Don Nicola Mammato in re maggiore, risalente agli anni ’80 del secolo scorso – arrivando, così, ad essere eseguita in modi ulteriormente diversi, dal momento che era affidata alla semplice e genuina interpretazione del popolo dei fedeli. In tal senso è possibile considerare come essa costituisca, in qualche modo, un filo rosso che congiunge non solo i bravi cantori del presente a quelli del passato ma anche, e soprattutto, i fedeli di oggi e di ieri in un comune sentire. Esso, mentre costituisce un patrimonio comune che merita di essere preservato, sprona ciascuno di noi a considerare come la propria esperienza, calata in un tempo determinato, sia parte di una storia che forse andrebbe riscoperta: non per puro gusto per le cose antiche, né per giustificare inopportune nostalgie, ma più semplicemente per costruire un presente che possa essere all’altezza di un così nobile passato, fatto, tra le diverse cose, di tanta bellezza.
a cura di Giuseppe Roggi e Francesco Reale
Incipit dei cinque brani di cui si compone la Messa. |