L'attualità del pensiero di S. Tommaso d'Aquino


Nella Festa Liturgica del Doctor Angelicus, il cui pensiero costituisce una pietra miliare della Teologia e della Filosofia Cristiana, riscopriamo l'attualità del suo messaggio attraverso un articolo a firma di P. Daniele Aucone, o.p., tratto dal Sito della Provincia Roma di S. Caterina dei Padri Predicatori

La vita virtuosa. Attualità del pensiero di S.Tommaso

di P. Daniele Aucone, o.p.

In un saggio degli anni ’80, che ha suscitato un notevole dibattito sia in ambito statunitense che in quello europeo, il filosofo comunitarista americano Alasdair MacIntyre immaginava un’enorme catastrofe che si abbatte sulle scienze naturali, colpendo i principali luoghi e istituzioni in cui si pratica la ricerca del sapere. Laboratori scientifici e centri di ricerca vengono incendiati, università e istituzioni accademiche distrutti, libri e strumenti di ricerca scientifica eliminati. Più tardi un gruppo di persone illuminate e amanti del sapere cercano di riportare in vita la ricerca e la pratica scientifica, ma ciò che ormai hanno a disposizione non sono altro che frammenti di sapere del tutto staccati dal loro contesto originario, parti di teorie senza legami con le altri parti che possiedono, pagine di libri o di articoli neppure sempre leggibili, perché strappate o bruciacchiate .

In questo contesto gli scienziati e i ricercatori continuano ad utilizzare termini ed espressioni scientifiche come “massa”, “neutrino”, “peso specifico”, ma esse hanno ormai un senso molto diverso dall’uso originale che se ne faceva precedentemente, e in ogni caso non immediatamente intellegibile per un ascoltatore. L’ipotesi avanzata da MacIntyre è che anche il nostro discorso in tema di etica e di teoria morale si trovi nella stessa condizione in cui si troverebbe la scienza dopo una catastrofe come quella immaginata: continuiamo ancora ad utilizzare termini e concetti appartenenti alla sfera e alla riflessione morale, ma abbiamo del tutto smarrito il senso originario e il contesto in cui quei termini erano sorti; continuiamo a utilizzare frammenti del discorso morale, ma facciamo fatica a elaborare una teoria organica e uno sguardo di insieme .

Il concetto di “virtù”, che ci interessa in questa occasione più da vicino, non sfugge all’ipotesi “inquietante” tratteggiata da MacIntyre. La critica della morale (e in particolar modo della morale cristiana) avviata da Nietzsche, fa pensare immediatamente a una condotta incentrata sulla mortificazione di sé e dei propri affetti, su un atteggiamento fondamentale di ostilità alla vita e al libero gioco delle sue energie espansive e creative. In uno degli aforismi de La gaia scienza  la morale viene collocata sullo sfondo di una «vendetta sullo spirito» che trova i suoi avvocati più pericolosi in gente annoiata e disgustata della vita, persone che disprezzano se stesse e che prendono quasi una rivincita verso sé e verso gli altri agitando continuamente frasi e discorsi morali. La virtù viene quindi considerata alla stregua di una pratica mortificante e repressiva, che ha come retroterra psicologico quello di un sentimento di rivalsa verso di sé e verso gli altri, dovuto a una fondamentale incapacità di gustare le gioie della vita e fronteggiarne le sfide. In un altro aforisma sempre de La gaia scienza  il concetto di “virtù” viene attaccato da Nietzsche in quanto fa pensare a un tipo di condotta seriale e ripetitiva incapace di dare spazio alle esigenze di creatività e di originalità del singolo. Come infatti non esiste un concetto unico di “salute” valido universalmente e a priori per tutti, in quanto ciascun individuo ha un particolare organismo e costituzione corporea, la cui salute dipende dal peculiare equilibrio delle forze vitali di quell’individuo; così non può esistere un concetto unico di “virtù” valido sempre e per tutti, dovendo piuttosto ciascuno scoprire e costruire la propria virtù sulla base delle esigenze singolari e specifiche del suo spirito. In questo secondo caso il concetto di “virtù” non viene contestato in se stesso, ma per la sua astrattezza e generalità che sembra non lasciare spazio all’esistenza e al cammino concreto del singolo individuo, esigendo piuttosto una condotta uniforme e omologante.

In tempi più vicini a noi chi ha proseguito questa “decostruzione” della morale (e in particolare della morale cristiana) è stato Michel Foucault (1926-1984) filosofo ed epistemologo delle scienze umane francese tra i più importanti del secolo scorso. Nei tre volumi dedicati a quella che egli chiama una “Storia della sessualità” (La volontà di sapere, L’uso dei piaceri, La cura di sé), Foucault oppone spesso l’approccio dei Greci al tema dell’uso dei piaceri, incentrato su un’arte dell’esistenza e su un processo di problematizzazioni successive che portano ciascuno a costituirsi come “soggetto” dell’esperienza morale, alla morale cristiana, che inquarda invece tale tematica all’interno di codici prescrittivi puntuali e dettagliati. Si tratta di un processo che inizia a partire dal XIII° secolo, e che porta progressivamente a una «fortissima giuridificazione» dell’esperienza morale, abbandonando così l’approccio patristico del cristianesimo dei primi secoli, nel quale si potevano cogliere «strettissime continuità tra le prime  dottrine cristiane e la filosofia morale dell’Antichità» .

La critica di Foucault non tende quindi ad amalgamare in un concetto unico la “morale cristiana”, ma a distinguere diverse periodizzazioni e svolte nel corso dei secoli, e a rivolgere soprattutto una critica ad una determinata figura storica di cristianesimo, che si inscrive a sua volta in una più generale critica della Modernità .

Ora, posta la pertinenza e la puntualità di una tale critica, la domanda che qui ci interessa in questa sede in cui riflettiamo su un autore come Tommaso d’Aquino: la riflessione tommasiana sull’agire umano rientra davvero nel bersaglio della critica post-moderna avviata da Nietzsche e proseguita dagli autori che lavorano sul crinale della “decostruzione”? Si tratta davvero di una “morale” codificata e giuridificata, che non lascia spazio al cammino e alla creatività individuale?

Anzitutto può essere utile partire da qualche precisazione terminologica. Se accettiamo la distinzione  tra etica intesa come intezionalità di una vita buona e riuscita (prospettiva teleologica), e morale intesa come articolazione di questa intenzionalità in imperativi e norme obbligatorie (prospettiva deontologica), la riflessione di Tommaso più che una “morale teologica” o una “teologia morale” dovrebbe dirsi più propriamente un’etica teologale. Vediamo più da vicino.

L’accento sul fine ultimo dell’esistenza umana è posto in rilievo fin dalla q.1 della I-IIæ: si tratta della beatitudine come meta dell’esistenza umana e cristiana intesa come pienezza di partecipazione alla vita divina. In tal senso si comprende la trattazione trinitaria nella Prima Pars e la riflessione sull’agire umano nella Secunda Pars: l’agire viene inteso come un cammino di assimilazione e partecipazione progressiva alla vita trinitaria (e non a caso la trattazione delle singole virtù nella II- IIæ  si apre proprio con una riflessione sulle tre virtù teologali, fede, speranza, carità nelle qq. 1-33). Tra queste è soprattutto la carità che viene sottolineata da Tommaso come autentica partecipazione del credente alla vita trinitaria. La carità è definita da Tommaso come «amicizia dell’uomo con Dio» , una mutua benevolenza resa possibile dal fatto che Dio stesso si comunica all’uomo in Cristo.

La prospettiva tommasiana è quindi decisamente etica (nel senso che abbiamo indicato, cioè di intenzionalità del fine ultimo), ed anche squisitamente teologale (più che semplicemente teologica , come se si trattasse solo di una speculazione astratta senza coinvolgimento e partecipazione del soggetto), nel senso che mira ad un’assimilazione del credente alla vita divina  (quella che i padri greci chiamano théosis, divinizzazione. Tommaso lo ricorda proprio in un bell’ articolo della q. 1 della Prima Pars dedicata a una riflessione sulla natura e lo statuto epistemologico della teologia (sacra doctrina). In quest’articolo (n.6) in cui la teologia viene intesa come una sapienza, Tommaso spiega che tale sapienza si fonda non solo su una conoscenza teoretica, ma anche su una conoscenza sperimentale (per modum inclinationis) che crea una connaturalità tra lo studioso e il particolare ambito della sua ricerca. Citando un passo di Dionigi Pseudo-Aeropagita, che a sua volta commenta 1Cor 2,15 (“l’uomo spirituale giudica ogni cosa”), Tommaso afferma che «Ieroteo è sapiente non solo perché studia il divino, ma anche perché lo sperimenta in sé (non solum discens sed et patiens divina)» .

La dimensione etica traspare poi dall’accento e dalla centralità della riflessione sulle virtù rispetto alla dimensione degli obblighi e dei precetti. Soffermandoci più strettamente sulle virtù umane (in merito alle quali è più facilmente possibile un confronto con il pensiero laico) cerchiamo di rispondere alle critiche provenienti dal pensiero contemporaneo e post-moderno cha abbiamo visto nella prima parte. La virtù è definita da Tommaso «un abito operativo(…)buono, fatto per compiere il bene», cioè una capacità stabile della persona di agire bene, di compiere azioni che “riescono bene”. “Riuscita” non ha qui solo un significato etico, nel senso di “buono”, ma anche una sfumatura estetica, nel senso di bello, del resto già presente nel termine greco aretè, che indica splendore, bellezza, oltre che eccellenza in senso morale.

La sede delle virtù è la mente (l’anima nel linguaggio di Tommaso), di cui le virtù perfezionano le attitudini (le “facoltà”) intellettive o caratteriali. Già da questo primo tratto si percepisce come la virtù non sia un “freno”, una limitazione rispetto alle capacità operative della persona, ma piuttosto un loro rafforzamento in vista dell’oggetto specifico cui ciascuna tende . In particolare le virtù “morali” (virtù del carattere) sono quelle che hanno direttamente a che fare con la gestione e il governo degli affetti (passioni nel linguaggio tommasiano, ma anche della riflessione filosofica in generale). Tommaso chiarisce fin dalla trattazione sugli atti umani in generale (qq. 1-21 della Prima Secundæ) che il governo che la ragione esercita sulla sfera del sentire «non mediante un “dominio dispotico”, qual è quello del padrone sullo schiavo, ma mediante un “dominio politico o regale ” qual è quello su uomini liberi, che non sottostanno pienamente al comando» .

In tale ottica si comprende come tutta una serie di equivoci da parte di autori anche contemporanei, che nascono dal volere applicare al rapporto tra razionalità e affettività la dialettica servo-padrone della Fenomenologia dello Spirito hegeliana oppure la categoria moderna di “sovranità” , sono espressamente esclusi dal testo di Tommaso che chiarisce in maniera inequivocabile che tale rapporto non può essere pensato in termini di rapporto «del padrone sullo schiavo». Il rapporto della razionalità all’affettività non ha nulla di una relazione di dominazione o di signoria (meno che mai di una forma di sottomissione o di violenza), ma piuttosto è quello di una guida sapiente, che tramite la persuasione e il consiglio cerca di orientare gli affetti stessi, affinché possano realizzarsi e esprimersi al meglio. Se quindi si vuol cercare un paradigma per inquadrare tale rapporto, esso andrebbe individuato piuttosto sul versante della relazione maestro-discepolo caratterizzata dalla libertà e dal riconoscimento, che non su quello del rapporto servo-padrone .

La virtù (morale) viene definita da Tommaso come una conformità dell’agire alla regola stabilita dalla ragione. Dal punto di vista degli affetti (o delle passioni) che ha ad oggetto, la virtù consiste in un «giusto mezzo» tra un eccesso e un difetto cui tendono per loro stessa natura le passioni. Così ad esempio il coraggio (la fortezza nel linguaggio di Tommaso) consiste in giusto mezzo tra timore e temerarietà (audacia) . Questa determinazione del giusto mezzo non ha nulla di meccanico o di aprioristico: Tommaso precisa che tale determinazione deve avvenire «secondo le diverse circostanze» , per cui nulla impedisce una capacità della virtù di modularsi rispetto alle situazioni, alla condizione della persona, alle circostanze anche storiche e culturali in cui l’agire stesso si inserisce. La determinazione del giusto mezzo richiede un apprendistato che passa attraverso ripetute e consolidate esperienze più che ricette già pronte. In particolare spetta alla prudenza (sostituita poi via via dal tema della coscienza nella trattatistica moderna ) operare questa gestione sapiente degli affetti, determinando il giusto mezzo delle passioni, tenuto conto di tutte le circostanze. La prudenza non è una virtù morale (cioè una virtù del carattere), ma più propriamente una virtù intellettuale, ma è una virtù senza la quale le virtù del carattere non possono sussistere. A tale virtù Tommaso assegna una importante funzione euristica consistente nel determinare il giusto mezzo in funzione delle situazioni sempre diverse e imprevedibili della vita, sia nell’individuare «il modo e gli espedienti per raggiungere il giusto mezzo» .

“Giudizio morale in situazione” , così Paul Ricœur definisce la virtù della phronesis, della saggezza, cui dedica una parte abbastanza ampia della trattazione etica contenuta in Sé come un altro. Alla saggezza spetta trovare un bilanciamento tra valori (“massime”) che possono entrare in conflitto nelle singole situazioni (è il caso del tragico di cui l’esempio è Antigone, stretta tra l’esigenza etica di dare sepoltura ai propri cari e il decreto di Creonte che vieta la sepoltura ai nemici della città), ma anche una soluzione in quelle situazioni nuove e spesso impreviste (gli hard cases di cui parla Ronald Dworkin) nelle quali il rispetto e la sollecitudine nei confronti dell’altro può entrare in conflitto con il rispetto dovuto a una regola. In questi casi la saggezza consiste «nell’inventare le condotte che soddisferanno maggiormente all’eccezione richiesta dalla sollecitudine tradendo la regola il meno possibile» .

Quindi lungi dall’essere una semplice ripetizione o applicazione di valori o standards già prefissati, la saggezza svolge un ruolo creativo (“creatività fedele”) nel suo ruolo di guida dell’agire umano.

In più la prudenza si presenta nella riflessione tommasiana anche come una virtù eminentemente dialogica e comunicativa. In un bell’articolo dedicato a quelle che egli definisce “parti integranti della prudenza” (cioè aspetti complementari e accessori necessariamente inclusi nella virtù stessa), Tommaso si chiede se la docilità sia da considerarsi parte integrante della prudenza. La risposta consiste nel rilevare che siccome la prudenza ha a che fare con azioni e situazioni singolari sempre mutevoli e diverse, e siccome è impossibile per una singola persona considerare da sola tutti gli aspetti e le possibilità, è giusto ricercare e ricevere consiglio da parte di altre persone (specie quelle giudicate a propria volta sagge e giudiziose) . Su tale docilità si fonda tutto il rapporto educativo e di istruzione (non a caso docilitas ha un’affinità semantica con docibilitas, disponibilità a ricevere un insegnamento), che implica anzitutto il riconoscimento di una maggiore saggezza, esperienza, competenza nella persona che è chiamate a svolgere un’azione educativa. Ma docilità dice anche la ricerca di un dialogo e di un confronto con altre persone (un’etica quindi anche comunicativa) che riduca i rischi di un agire in base esclusivamente al proprio sentire, e dunque in ultima analisi arbitrario. Lo ha ricordato lo stesso Paul Ricœur scrivendo, quasi a conclusione della sua trattazione, che «il phronimos non è necessariamente un uomo solo».

Proprio per tutte queste caratteristiche (la prospettiva decisamente teologale, l’accento messo sulle virtù piuttosto che sui doveri o i precetti, il carattere aperto e sempre rivedibile del giusto mezzo come equilibrio tra gli eccessi e la centralità della virtù della prudenza, che chiama a un’interpretazione anche creativa dell’agire in campo etico), sembra si possa concludere che la riflessione tommasiana sull’agire umano sfugge a tutte le critiche sollevate dalla riflessione contemporanea e post-moderna nei confronti di una morale precettistica e codificata, essendo piuttosto il suo centro quello di una liberazione integrale della persona e delle sue energie migliori in vista della comunione con Dio e con l’altro. Nonostante la distanza temporale che separa il tempo e l’epoca di Tommaso dalla nostra, la sua riflessione può ancora offrire ancora spunti e orientamenti per un itinerario formativo integrale ed esigente dal punto di vista della radicalità dell’impegno e delle mete che si prefigge, ma aperto anche a fare spazio alla diversità delle persone, delle circostanze, delle situazioni sempre diverse e mai del tutto inquadrabili a priori della vita. Un’arte, quindi, più che un codice fatto di regole e imperativi; un percorso educativo in cui si possono dare degli orientamenti e delle linee-guida, ma mai una risposta dettagliata a tutte le sfide che la vita possa presentare. Un itinerario ancora significativo in questo tempo segnato dalla sfida dell’«emergenza educativa»  perché capace di tracciare un cammino integrale, grazie alla sua capacità di integrare la dimensione teologale (e quindi più specificamente cristiana), quella intellettuale e quella caratteriale dell’esistenza umana e di guardare alla crescita e alla realizzazione completa della persona in vista di una vita compiuta e felice. Potremmo dire che ciò che Tommaso ci aiuta a tracciare è il cammino di un’autentica “estetica dell’esistenza cristiana”: «estetica dell’esistenza»  è un’espressione che prendiamo a prestito proprio da Michel Foucault (un po’ come Tommaso che prendeva spesso a prestito espressioni da autori del suo tempo, a volte senza nemmeno citarli espressamente) per indicare il cammino di «vita bella, buona e beata» , che il cristiano può vivere sulle tracce di Gesù e del Vangelo.






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