Don Clemente Confalone, dall’orrore della guerra al sacerdozio

Ricorre oggi l'anniversario dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, compiuto a Roma dalle truppe di occupazione naziste il 24 marzo 1944. La vicenda che ebbe protagonista il sacerdote maiorese don Clemente Confalone si riferisce a quel periodo tragico della nostra storia. Ci piace ricordare il presule maiorese attraverso uno scritto di Sigismondo Nastri per il Corriere del Mezzogiorno del 23 luglio 1996. Buona lettura!

Don Clemente Confalone, dall’orrore della guerra al sacerdozio

di Sigismondo Nastri

Nell’ottobre del 1943 Roma era in preda al caos. Vi dominava la paura. L’armistizio dell’8 settembre aveva determinato una situazione paradossale, trasformando in alleati i nemici di ieri, e viceversa, e segnando l’inizio di un conflitto tra italiani di opposte fazioni. L’ingegnere Pietro Lestini era vicepresidente dell’Associazione cattolica di San Gioacchino, nel quartiere Prati. Come ricorda la figlia Giuliana in un libro (S.A.S.G., edizioni Il Ventaglio), egli era impegnato nella lotta contro gli oppressori nazisti, ma soprattutto “nella testimonianza di solidarietà e altruismo di tutti i perseguitati a causa della razza, della religione, dell’idea politica e dell’amore per una patria libera e democratica”.  Con l’appoggio del parroco, padre Antonio Dressino, l’ingegnere Lestini aveva allestito un servizio di accoglienza per militari allo sbando, ebrei e perseguitati politici.  

Tra i primi accorsi ci fu il tenente di fanteria Clemente Confalone, “un uomo alto e magro, quasi ieratico, avvalorava questo suo aspetto la spiccata tendenza alla religiosità”. 

Profondamente buono, educato ai principi della fede e della fratellanza universale, egli s’era rifiutato di obbedire all’ordine di partire per Trieste. Aveva scelto la strada della diserzione, trovando riparo nella chiesa di san Gioacchino, àncora di salvezza per quanti volevano sfuggire alle retate nazifasciste. In questo contesto, un tipo come lui, che preferiva impugnare la corona del Rosario anziché la pistola, divenne ben presto bersaglio di lazzi e frizzi da parte degli altri rifugiati. “Pur tuttavia – rileva Giuliana Lestini – essendo d’animo mite riusciva a sopportare e in fondo a prestarsi fino al momento in cui di cattivo umore rispondeva con veemenza ed acredine. Era però riuscito a imporre la recita del Rosario e spesso li puniva coi suoi sermoni sulla bontà divina e la malvagità umana”.

Il rifugio ideato dall’ingegnere Lestini era “un locale esistente tra la volta e il tetto della chiesa stessa a ridosso della cupola, un locale quasi aereo tra le capriate del soffitto”. Fu quella che venne chiamata “Sezione aerea di san Gioacchino” (di qui la sigla S.A.S.G.), che, sotto il vincolo del giuramento e della segretezza delle azioni, si prefiggeva di occultare quanti fossero perseguitati e di compiere atti di sabotaggio contro i nemici nazifascisti. Si trattò di ore, giorni, mesi trascorsi in una situazione di precarietà assoluta. Murati addirittura, per motivi di sicurezza.

Il tenente Clemente Confalone, appartenente a una delle famiglie più in vista di Maiori, aveva trentacinque anni, essendo nato il 10 marzo 1908. Con una laurea in giurisprudenza, conseguita brillantemente, era avviato a una carriera di avvocato o di magistrato, nel solco di una consolidata tradizione familiare. La terribile esperienza vissuta fece maturare in lui un’altra decisione: quella di diventare prete. Rientrato finalmente a casa, abbandonò i codici ed entrò in seminario. Furono sufficienti due anni di studio per l’ordinazione sacerdotale. Resta memorabile, in quanti lo hanno conosciuto, la sua profonda devozione alla Madonna, venerata come protettrice dai maioresi nella Collegiata e festeggiata il 15 agosto col nome di S. Maria a Mare.

Don Clemente, che ha trascorso la vecchiaia – seduto in carrozzella, per le precarie condizioni fisiche – presso le Suore Domenicane di Maiori, amorevolmente assistito, ha chiuso gli occhi il 16 giugno del 1994, all’età di ottantasei anni. Di quella “soffitta” non aveva mai parlato con nessuno. Ma la sera del 9 marzo 1984, quando ricevette la visita di padre Ezio Marcelli, nuovo parroco di san Gioacchino, si lasciò travolgere dall’emozione e dai ricordi: “Il mangiare – riferì – saliva per mezzo di una carrucola. A far funzionare il congegno ci pensava l’ingegnere Lestini, con l’ausilio del sacrestano Domenico Pizzato, che si occupava anche di svuotare i secchioni utilizzati come gabinetto. Il cibo era fornito dalle Suore della Carità che, malgrado la carestia, non fecero mancare nulla del necessario”. Poi il racconto divenne più intenso: “Si passavano le ore discutendo del più e del meno, della vita passata, delle speranze per il futuro, del desiderio di uscire da quel luogo. A volta ci recapitavano i giornali. Lestini li faceva passare attraverso un foro nel soffitto all’interno della chiesa. Ci industriammo per portare la luce elettrica in modo da illuminare il nostro rifugio; e tanto facemmo che entrammo in possesso perfino di una radio per essere al corrente di ciò che avveniva fuori. La sera si recitava il Rosario, e vi prendevano parte anche gli ebrei”. Uno di questi, vedendolo “troppo devoto”, una volta, un po’ per burla e un po’ seriamente, gli aveva detto: “Quando ti farai prete diventerò cristiano”. Don Clemente non ha mai saputo se mantenne la promessa.

Fonte: Corriere del Mezzogiorno

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