“La notte del Signore” di David Maria Turoldo, il commento
La notte del Signore per David Maria Turoldo
«Ed ora a noi due», avanti
di aprire per l’estremo
giudizio le carte:
inoltrandoti ormai nella Notte
solo, assenti
i tuoi o lontani,
gravati gli occhi dal sonno;
anche tu con la mole
del mondo sul cuore;
sotto la cupa volta del cielo,
un cielo ancor più assente
e sordo
e lontano;
via via ancor più nera: e gli occhi
un grumo di lacrime e fango,
lacrime e sangue:
sangue dalla fronte, dal viso
dalle mani, sangue e terra
e fili d’erba sulla bocca;
solo uomo, perfettamente uomo, pienezza
di umanità: «Per questo
per questo…».
il novello scriba le ciance,
ritorni il silenzio!
Mai nessuno ha saputo.
Per voi, o Teologi, lasciate…
Perfino gli olivi piangevano
quella Notte, e le pietre
erano più pallide e immobili,
l’aria tremava tra ramo e ramo
quella Notte.
«Padre, se è possibile…». Così
da questa ringhiera
quale un reticolato da campo
di concentramento, iniziava
la tua Notte.
sul mondo: tra questa
e l’altra preghiera estrema:
«Perchè, ma perchè, mio Dio…»
Notte senza un lume: disperata
tua e nostra Notte. «Perchè…?»
Anche Tu
hai urlato «perchè» dall’alto
di quella cima, e nessuna
risposta è venuta (allora!)
E l’urlo si spandeva a onde
nel cielo – almeno allora – vuoto,
squarciato dal tuo grido cui
una eco interminabile
ancora si effonde
di balza in balza su clivi
di millenni: «perchè perchè…».
E dunque,
finivi con la certezza di essere
un abbandonato.
non sapevi! E hai gridato il perchè
di tutti i maledetti, appesi
ai patiboli. E non era
desiderio di sapere le ragioni
del morire: non questo,
non la morte è l’enigma (oh,
la bella morte di chi
operoso e carico di anni
saluta i figli e tramonta come
dopo lungo giorno il sole
si cala a sera).
come tu possa, Dio, coesistere
insieme al Male insieme al lungo
penare di un bimbo, insieme
alla interminabile agonia del Giusto;
quando la certezza di essere soli divampa
dagli occhi del torturato (e Tu
non intervieni); quando
il sospetto del Nulla ti avvinghia e navighi,
mozzato il respiro, entro irreali abissi.
E’ questo tuo abbandono
il più nero enigma, o Cristo.
E dunque
anche Tu
ateo?… Fu questa
la tua vera Notte, Signore,
la tua discesa agl’Inferi
avanti che ti accogliesse
nel suo ventre la Terra.
di Lui, dire a tutti che ti ama,
e consumarti di amore, e sentire
che sei abbandonato.
«Padre, Abbà, papà!…»
sia pure «tuo Dio»!
Alla fine, dunque, non più padre?
O, perfino, che non esista?
avresti potuto dire:
«Nelle tue mani rimetto lo spirito»?
Aresti vinto per un atto di fede
senza speranza?
ancora credevi?
Sappiamo, sappiamo che fosti
«esaudito per la tua pietà»:
Resurrezione, non altro
è la risposta.
ancora sale sul mondo
la Notte.
La contemplazione
del Cristo crocifisso, immagine che sembra aleggiare quasi come una chimera
nell’atmosfera quaresimale delle nostre chiese, o del Cristo morto, corporeità
che rende pienamente tangibile il disegno divino finalizzato alla redenzione
dell’umanità, desta nell’animo del cristiano non soltanto sentimenti di
profonda compassione ma anche di venerazione dell’essenza divina del Figlio di
Dio, manifestatasi nel dolore e nella sofferenza.
Ai nostri occhi
semplici sembra che Cristo sia stato pienamente consapevole del suo sacrificio,
che abbia abbracciato il peso della croce e abbia accolto la gravità del
peccato umano in pieno accordo alla volontà del Padre, portando così a
compimento la parola autorevole dei profeti: “Maltrattato, si lasciò
umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come
pecora muta di fronte ai suoi tosatori, /e non aprì la sua bocca” (Is,
53,7).
Il cammino
quaresimale che ci accompagna fino al cenacolo per spezzare con Gesù il pane
degli angeli ci invita non soltanto alla conversione, ma anche e soprattutto ad
una riflessione più profonda sulla sua figura. Si tende a idealizzare
inconsapevolmente il Redentore, dimenticandone la dimensione umana in virtù
dell’altezza del messaggio divino da lui predicato: in realtà Cristo, al pari
di altri uomini, ha provato sentimenti di fragilità che lo hanno reso e lo
rendono ancora vicino all’esperienza di ogni essere umano, sebbene fosse pienamente
conscio del suo ruolo. Anch’egli è stato vittima del dubbio e dello
smarrimento, nonostante il suo spirito fosse intimamente connesso alla volontà
celeste. Anch’egli ha provato paura e angoscia, pur acconsentendo ad essere
strumento prediletto dell’autorità del Padre.
L’umanità di Gesù
si esplicita nella sua totalità poco prima della cattura, nell’orto del
Getsemani: è questo il luogo in cu il Cristo-uomo si manifesta nella sua
totalità. David Maria Turoldo, sacerdote dell’ordine dei Servi di Maria, offre
a noi lettori Cristo immerso in sentimenti, emozioni e stati d’animo
profondamente umani. Il testo, incluso nella raccolta “O sensi miei…”, presenta
Gesù “solo uomo, perfettamente uomo, pienezza di umanità”.
Si desta
nell’animo del Redentore l’ansia della conoscenza del futuro imminente, la
trepidante volontà di conoscere la natura del sacrificio al quale è stato sin
dalle origini predestinato: cosa sarebbe accaduto, all’alba del giorno seguente?
Sapeva che sarebbe stato catturato per essere prima umiliato e poi crocifisso?
Turoldo esordisce dicendo: “Interrompa / il novello scriba le ciance, /
ritorni il silenzio! / Mai nessuno ha saputo. / Per voi, o Teologi, lasciate…”.
Nessuno ha mai potuto intendere il tormento psicologico e il patimento fisico
di Cristo nel Gestemani: ecco, dunque, che si delinea l’invito rivolto a
teologi ed intellettuali (i novelli scribi?) a non soffermarsi con
dissertazioni su un Cristo intimamente connesso alla realtà umana, anche se per
una notte. La natura sembra partecipe della condizione umana di Gesù: il “Perchè?”
pronunciato nello spasimo investe anche l’elemento naturale che sembra
avvicinarsi all’intimo stravolgimento del Signore.
Notiamo il
riferimento al reticolato del campo di concentramento: Turoldo attua, in questo
modo, un parallelismo significativo fra la passione di Cristo e la Shoah,
una delle più grandi tragedie della storia del XX secolo connessa alla Seconda
guerra mondiale. Un Cristo solo, smarrito, sofferente si reincarna in ogni
tempo nella disintegrazione calcolata di anime innocenti, nell’egoistica
volontà di progettare conflitti, nelle forme di individualismo quali quelle,
oggi imperanti, dell’egoismo e della vanità.
La notte del
Signore può essere paragonabile alla notte degli internati nei campi di
concentramenti e di sterminio nazisti: la nota frase rinvenuta su un muro ad
Auschwitz “Se esiste un Dio, dovrà chiedermi perdono” è esempio
paradigmatico del senso di abbandono, di incomprensione e di tormento che è
stato comune al Redentore nell’orto degli ulivi. Tra la notte del Getsemani
degli ulivi e la notte in una camerata di Auschwitz non v’è differenza: la
Notte calata sull’Europa del Novecento, segnata dai due conflitti mondiali,
viene definita da Turoldo «la più densa Notte
sul mondo».
«Perchè, ma
perchè, mio Dio…» / Notte senza un lume: disperata / tua e nostra Notte.
«Perchè…?»:
la speranza, iconicamente connessa al tema della luce e della fiamma, cede il
posto alla disperazione, ad un brancolare spasmodico nel buio delle domande
senza risposta. «Ora, l’animo mio è
turbato; e che dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma è per questo che sono
venuto incontro a quest’ora». (Gv 12,27): il
versetto giovanneo esprime formidabilmente l’inscindibile unione di propensioni
divine e umane in Cristo e come lo stesso Figlio di Dio non sia stato esente da
accenni di rivolgimenti interiori.
Il calice che
Cristo chiede a Dio di allontanare da sé, secondo S. Tommaso d’Aquino, è il
dolore della passione. La sua volontà è sì divina ma è anche e soprattutto
umana: è perfettamente identica a quella del Padre, ma in quanto uomo sente il
turbamento dato dal pensiero della morte e dalla mancata conoscenza delle
sofferenze che lo attendono. Padre Lagrange, religioso e biblista francese dell'Ordine
domenicano, in L’Evangelo di Gesù Cristo fa propria l’interpretazione di
S. Tommaso e commenta il passo evangelico così: «tale abbattimento, tale
sudor di sangue, lo spavento davanti alle torture dell’anima e del corpo, la
preghiera di allontanare il calice che aveva tanto desiderato di bere, la sua
povera umanità così simile alla nostra, non riuscirono a scandalizzare gli
adoratori di Gesù i quali vi scorsero soltanto un appello veemente al loro
amore.» Cristo deve amare il Male che l’uomo gli farà per redimerlo su
volontà del Padre: chi mai, essendo uomo, accetterebbe di farsi carico del
mondo, sapendo di andare incontro alla distruzione di sé?
«Mistero è che / nessuno comprende / come
tu possa, Dio, coesistere / insieme al Male», si legge ancora nella poesia
di Turoldo. Cristo si è immolato per gli uomini, ma oggi? Le diverse
manifestazioni del Male si ripresentano puntuali nella contemporaneità tanto
nel contesto politico quanto in quello sociale: l’umanità è stata forse
abbandonata da Dio? Le vittime dell’odio e della guerra sono orfani della
misericordia divina? Restano, questi quesiti, un nero enigma.
Lo stesso
Redentore, nella limitatezza della propria solitudine, ha sperimentato il
dubbio e l’abbandono. Continua Padre Lagrange: «…ci è rivelata l’umanità di
Gesù in tutto simile alla nostra, salvo il peccato, e dotata di una volontà
umana che sente l’orrore delle sofferenze, e di quali sofferenze! Tanto che
neppure per un istante questa volontà è stata tenuta in sospeso.» Turoldo
trasfigura nel verso l’essenza di tali riflessioni: «Credere in Lui e
dubitare / di Lui, dire a tutti che ti ama, / e consumarti di amore, e sentire
/ che sei abbandonato. / «Padre, Abbà, papà!…». Cristo, pur essendo uomo,
non ha mai risolto la sua debolezza nella carne ma ha rovesciato la sua
tensione nella certezza dello spirito, abbracciando con fede l’amore di un
Padre che chiede, quasi esige la rovina corporale del suo Eletto per salvare
l’Uomo e glorificare il suo spirito nella luce rinnovata della vita eterna.
Questo è il senso della Quaresima. Guardare ad un Cristo-uomo, partecipe della nostra condizione mortale e in quanto tale fragile. Considerare l’Uomo della Croce non solo come emblema di una regalità coronata dal più atroce patimento ma come riflesso esemplare di una concretezza storica - quale quella delle vicende contemporanee - segnata dalla violenza. Accogliere il messaggio del Redentore nella semplicità per essere protagonisti di una conversione vera: poiché oggi «compatta / ancora sale sul mondo / la Notte, urge una metamorfosi spirituale in grado di modificare il corso degli eventi, individuali e comunitari, un cambiamento da attuare anche a costo di accostarci al calice della dolore e della sofferenza, quello stesso calice dal quale ha bevuto Cristo saturo di umanità.
«Sappiamo, sappiamo che fosti / «esaudito per la tua pietà»: / Resurrezione, non altro / è la risposta. / Ma Tu non sapevi! », conclude Turoldo nell’ultima strofa del suo componimento. Una sola la parola che è stata certezza per Cristo, abbandonatosi al Male, e che è e sarà conforto per noi, arma per convertire i cuori e prodromo verso tempi migliori: fede! Fede nel dolore che apre alla verità, fede nella purezza che cancella il peccato, fede nella vita eterna, trofeo dopo la morte.