“La notte del Signore” di David Maria Turoldo, il commento

Per la rubrica Poesia e fede proponiamo il commento del giovane poeta Luigi Reale a La notte del Signore di David Maria Turoldo. Buona lettura!

Vasilij Grigor'evič PerovIl Getsemani

La notte del Signore per David Maria Turoldo

di Luigi Reale
I
«Ed ora a noi due», avanti
di aprire per l’estremo
giudizio le carte:
 
anche Tu
inoltrandoti ormai nella Notte
solo, assenti
i tuoi o lontani,
gravati gli occhi dal sonno;
 
solo
anche tu con la mole
del mondo sul cuore;
 
solo
sotto la cupa volta del cielo,
un cielo ancor più assente
e sordo
e lontano;
 
e la Notte nera,
via via ancor più nera: e gli occhi
un grumo di lacrime e fango,
lacrime e sangue:
sangue dalla fronte, dal viso
dalle mani, sangue e terra
e fili d’erba sulla bocca;
 
anche Tu, solo:
solo uomo, perfettamente uomo, pienezza
di umanità: «Per questo
per questo…».
 
Interrompa
il novello scriba le ciance,
ritorni il silenzio!
Mai nessuno ha saputo.
Per voi, o Teologi, lasciate…
 
II
Perfino gli olivi piangevano
quella Notte, e le pietre
erano più pallide e immobili,
l’aria tremava tra ramo e ramo
quella Notte.
 
E dicevi:
«Padre, se è possibile…». Così
da questa ringhiera
quale un reticolato da campo
di concentramento, iniziava
la tua Notte.
 
Si è levata la più densa Notte
sul mondo: tra questa
e l’altra preghiera estrema:
«Perchè, ma perchè, mio Dio…»
Notte senza un lume: disperata
tua e nostra Notte. «Perchè…?»
 
III
Anche Tu
hai urlato «perchè» dall’alto
di quella cima, e nessuna
risposta è venuta (allora!)
E l’urlo si spandeva a onde
nel cielo – almeno allora – vuoto,
squarciato dal tuo grido cui
una eco interminabile
ancora si effonde
di balza in balza su clivi
di millenni: «perchè perchè…».
E dunque,
 
anche Tu
finivi con la certezza di essere
un abbandonato.
 
Anche Tu
non sapevi! E hai gridato il perchè
di tutti i maledetti, appesi
ai patiboli. E non era
desiderio di sapere le ragioni
del morire: non questo,
non la morte è l’enigma (oh,
la bella morte di chi
operoso e carico di anni
saluta i figli e tramonta come
dopo lungo giorno il sole
si cala a sera).
 
Mistero è che nessuno comprende
come tu possa, Dio, coesistere
insieme al Male insieme al lungo
penare di un bimbo, insieme
alla interminabile agonia del Giusto;
quando la certezza di essere soli divampa
dagli occhi del torturato (e Tu
non intervieni); quando
il sospetto del Nulla ti avvinghia e navighi,
mozzato il respiro, entro irreali abissi.
E’ questo tuo abbandono
il più nero enigma, o Cristo.
 
IV
E dunque
anche Tu
ateo?… Fu questa
la tua vera Notte, Signore,
la tua discesa agl’Inferi
avanti che ti accogliesse
nel suo ventre la Terra.
 
Credere in Lui e dubitare
di Lui, dire a tutti che ti ama,
e consumarti di amore, e sentire
che sei abbandonato.
«Padre, Abbà, papà!…»
 
Ora invece appena: «Dio»;
sia pure «tuo Dio»!
Alla fine, dunque, non più padre?
O, perfino, che non esista?
 
Ma come poi
avresti potuto dire:
«Nelle tue mani rimetto lo spirito»?
Aresti vinto per un atto di fede
senza speranza?
 
Pur perduto dentro l’abisso del Nulla
ancora credevi?
 
V
Sappiamo, sappiamo che fosti
«esaudito per la tua pietà»:
Resurrezione, non altro
è la risposta.
 
Ma Tu non sapevi!
 
Come noi non sappiamo. E compatta
ancora sale sul mondo
la Notte.

 

La contemplazione del Cristo crocifisso, immagine che sembra aleggiare quasi come una chimera nell’atmosfera quaresimale delle nostre chiese, o del Cristo morto, corporeità che rende pienamente tangibile il disegno divino finalizzato alla redenzione dell’umanità, desta nell’animo del cristiano non soltanto sentimenti di profonda compassione ma anche di venerazione dell’essenza divina del Figlio di Dio, manifestatasi nel dolore e nella sofferenza.

Ai nostri occhi semplici sembra che Cristo sia stato pienamente consapevole del suo sacrificio, che abbia abbracciato il peso della croce e abbia accolto la gravità del peccato umano in pieno accordo alla volontà del Padre, portando così a compimento la parola autorevole dei profeti: “Maltrattato, si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, /e non aprì la sua bocca” (Is, 53,7).

Il cammino quaresimale che ci accompagna fino al cenacolo per spezzare con Gesù il pane degli angeli ci invita non soltanto alla conversione, ma anche e soprattutto ad una riflessione più profonda sulla sua figura. Si tende a idealizzare inconsapevolmente il Redentore, dimenticandone la dimensione umana in virtù dell’altezza del messaggio divino da lui predicato: in realtà Cristo, al pari di altri uomini, ha provato sentimenti di fragilità che lo hanno reso e lo rendono ancora vicino all’esperienza di ogni essere umano, sebbene fosse pienamente conscio del suo ruolo. Anch’egli è stato vittima del dubbio e dello smarrimento, nonostante il suo spirito fosse intimamente connesso alla volontà celeste. Anch’egli ha provato paura e angoscia, pur acconsentendo ad essere strumento prediletto dell’autorità del Padre.

L’umanità di Gesù si esplicita nella sua totalità poco prima della cattura, nell’orto del Getsemani: è questo il luogo in cu il Cristo-uomo si manifesta nella sua totalità. David Maria Turoldo, sacerdote dell’ordine dei Servi di Maria, offre a noi lettori Cristo immerso in sentimenti, emozioni e stati d’animo profondamente umani. Il testo, incluso nella raccolta “O sensi miei…”, presenta Gesù “solo uomo, perfettamente uomo, pienezza di umanità”.

Si desta nell’animo del Redentore l’ansia della conoscenza del futuro imminente, la trepidante volontà di conoscere la natura del sacrificio al quale è stato sin dalle origini predestinato: cosa sarebbe accaduto, all’alba del giorno seguente? Sapeva che sarebbe stato catturato per essere prima umiliato e poi crocifisso? Turoldo esordisce dicendo: “Interrompa / il novello scriba le ciance, / ritorni il silenzio! / Mai nessuno ha saputo. / Per voi, o Teologi, lasciate…”. Nessuno ha mai potuto intendere il tormento psicologico e il patimento fisico di Cristo nel Gestemani: ecco, dunque, che si delinea l’invito rivolto a teologi ed intellettuali (i novelli scribi?) a non soffermarsi con dissertazioni su un Cristo intimamente connesso alla realtà umana, anche se per una notte. La natura sembra partecipe della condizione umana di Gesù: il “Perchè?” pronunciato nello spasimo investe anche l’elemento naturale che sembra avvicinarsi all’intimo stravolgimento del Signore.

Notiamo il riferimento al reticolato del campo di concentramento: Turoldo attua, in questo modo, un parallelismo significativo fra la passione di Cristo e la Shoah, una delle più grandi tragedie della storia del XX secolo connessa alla Seconda guerra mondiale. Un Cristo solo, smarrito, sofferente si reincarna in ogni tempo nella disintegrazione calcolata di anime innocenti, nell’egoistica volontà di progettare conflitti, nelle forme di individualismo quali quelle, oggi imperanti, dell’egoismo e della vanità.

La notte del Signore può essere paragonabile alla notte degli internati nei campi di concentramenti e di sterminio nazisti: la nota frase rinvenuta su un muro ad Auschwitz “Se esiste un Dio, dovrà chiedermi perdono” è esempio paradigmatico del senso di abbandono, di incomprensione e di tormento che è stato comune al Redentore nell’orto degli ulivi. Tra la notte del Getsemani degli ulivi e la notte in una camerata di Auschwitz non v’è differenza: la Notte calata sull’Europa del Novecento, segnata dai due conflitti mondiali, viene definita da Turoldo «la più densa Notte
sul mondo»
.

«Perchè, ma perchè, mio Dio…» / Notte senza un lume: disperata / tua e nostra Notte. «Perchè…?»: la speranza, iconicamente connessa al tema della luce e della fiamma, cede il posto alla disperazione, ad un brancolare spasmodico nel buio delle domande senza risposta. «Ora, l’animo mio è turbato; e che dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma è per questo che sono venuto incontro a quest’ora». (Gv 12,27): il versetto giovanneo esprime formidabilmente l’inscindibile unione di propensioni divine e umane in Cristo e come lo stesso Figlio di Dio non sia stato esente da accenni di rivolgimenti interiori.

Il calice che Cristo chiede a Dio di allontanare da sé, secondo S. Tommaso d’Aquino, è il dolore della passione. La sua volontà è sì divina ma è anche e soprattutto umana: è perfettamente identica a quella del Padre, ma in quanto uomo sente il turbamento dato dal pensiero della morte e dalla mancata conoscenza delle sofferenze che lo attendono. Padre Lagrange, religioso e biblista francese dell'Ordine domenicano, in L’Evangelo di Gesù Cristo fa propria l’interpretazione di S. Tommaso e commenta il passo evangelico così: «tale abbattimento, tale sudor di sangue, lo spavento davanti alle torture dell’anima e del corpo, la preghiera di allontanare il calice che aveva tanto desiderato di bere, la sua povera umanità così simile alla nostra, non riuscirono a scandalizzare gli adoratori di Gesù i quali vi scorsero soltanto un appello veemente al loro amore.» Cristo deve amare il Male che l’uomo gli farà per redimerlo su volontà del Padre: chi mai, essendo uomo, accetterebbe di farsi carico del mondo, sapendo di andare incontro alla distruzione di sé?

 «Mistero è che / nessuno comprende / come tu possa, Dio, coesistere / insieme al Male», si legge ancora nella poesia di Turoldo. Cristo si è immolato per gli uomini, ma oggi? Le diverse manifestazioni del Male si ripresentano puntuali nella contemporaneità tanto nel contesto politico quanto in quello sociale: l’umanità è stata forse abbandonata da Dio? Le vittime dell’odio e della guerra sono orfani della misericordia divina? Restano, questi quesiti, un nero enigma.

Lo stesso Redentore, nella limitatezza della propria solitudine, ha sperimentato il dubbio e l’abbandono. Continua Padre Lagrange: «…ci è rivelata l’umanità di Gesù in tutto simile alla nostra, salvo il peccato, e dotata di una volontà umana che sente l’orrore delle sofferenze, e di quali sofferenze! Tanto che neppure per un istante questa volontà è stata tenuta in sospeso.» Turoldo trasfigura nel verso l’essenza di tali riflessioni: «Credere in Lui e dubitare / di Lui, dire a tutti che ti ama, / e consumarti di amore, e sentire / che sei abbandonato. / «Padre, Abbà, papà!…». Cristo, pur essendo uomo, non ha mai risolto la sua debolezza nella carne ma ha rovesciato la sua tensione nella certezza dello spirito, abbracciando con fede l’amore di un Padre che chiede, quasi esige la rovina corporale del suo Eletto per salvare l’Uomo e glorificare il suo spirito nella luce rinnovata della vita eterna.

Questo è il senso della Quaresima. Guardare ad un Cristo-uomo, partecipe della nostra condizione mortale e in quanto tale fragile. Considerare l’Uomo della Croce non solo come emblema di una regalità coronata dal più atroce patimento ma come riflesso esemplare di una concretezza storica - quale quella delle vicende contemporanee - segnata dalla violenza. Accogliere il messaggio del Redentore nella semplicità per essere protagonisti di una conversione vera: poiché oggi «compatta / ancora sale sul mondo / la Notte, urge una metamorfosi spirituale in grado di modificare il corso degli eventi, individuali e comunitari, un cambiamento da attuare anche a costo di accostarci al calice della dolore e della sofferenza, quello stesso calice dal quale ha bevuto Cristo saturo di umanità.

«Sappiamo, sappiamo che fosti / «esaudito per la tua pietà»: / Resurrezione, non altro / è la risposta. / Ma Tu non sapevi! », conclude Turoldo nell’ultima strofa del suo componimento.  Una sola la parola che è stata certezza per Cristo, abbandonatosi al Male, e che è e sarà conforto per noi, arma per convertire i cuori e prodromo verso tempi migliori: fede! Fede nel dolore che apre alla verità, fede nella purezza che cancella il peccato, fede nella vita eterna, trofeo dopo la morte.


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